Presentazione

n un’epoca in cui tutti scrivono di tutto (in Italia attualmente sono in commercio circa quattrocentomila titoli in lingua italiana con una esigua quantità di lettori) può venire il dubbio che ogni opera nuova non abbia il successo sperato.

Vi sono però dei temi storici, come nel caso della nostra collana “Tra Romania e Longobardia” – per gli addetti il termine dovrebbe essere Langobardia - che tratterà argomenti nuovi mediante una ricerca attenta dei documenti conservati nelle inviolabili biblioteche, nel linguaggio dei toponimi e l’antica viabilità. Una collana che travalica i confini localistici, anzi li considera come un laboratorio di ricerca e non come fine specifico.

Un amico, un ricercatore del lessico, uno psicologo del tempo, un poeta della storia, mi ha affiancato ad intraprendere questa nuova collana editoriale volta a far discutere, ad indagare nuovamente, a provocare il drago dormiente, a tormentare con dubbi e nuove idee chi, purtroppo, si era adagiato su quanto già era stato detto e ridetto.

Paolo Rinolfi dopo le sue indagini innovative con “Umra” e con “Luceoli” ha dato prova che la inviolabilità di pochi può essere infranta colpendo nel segno, individuando quanto era “davanti agli occhi”, impressionati da immagini diverse, da indizi nascosti, da ombre di un passato sepolto. La verità è stata da sempre il mio scopo, quale editore, poco foraggiato dalla struttura pubblica.

Questo primo volume ed altri a seguire della collana sono le indagini di un ventennio di studi dell’autore e direttore della collana, che a braccetto con l’editore dimostrerà quanta langobardia ancora oggi vive nella Regione Marche. Si affiancheranno altri autori che tratteranno usi, consuetudini, diritti, linguaggio, ricostruendo un panorama assopito per secoli, accarezzato dal vento che scopre e ricopre. La grande selva dove lo stanco guerriero longobardo sdraiato riposava, può essere la stessa che noi molte volte abbiamo visto, rigenerata dallo stesso seme per secoli, sotto cui anche noi ci siamo sdraiati, pensando al passato, liberando la nostra mente della frenetica vita presente, respirando la brezza campagnola, sotto un’ombra che ci protegge dal sole, che sorge e tramonta da millenni.

 

L’editore

 

Presentazione

gni mattino un sole beffardo illuminava la linea dell’orizzonte, che il Nerone chiude oltre le cortine dei colli scoscesi e le vallette coltivate, dove al risveglio il conte feltresco fermava lo sguardo, come un amante respinto. Divorava con gli occhi la finestra proibita, giurando ogni volta di farla sua. Gli apparteneva di diritto, là fino al Candigliano erano le terre diocesane e in quel punto si sarebbero fissati i confini comitali. Ugualmente Città di Castello si affacciava da Apecchio, sbucando dal fianco del Nerone, e contendeva la regione, sobillando alla resistenza le contrade ribelli, che si erano rifugiate nell’opposto partito,  per sottrarsi all’abbraccio del conte ghibellino. Tra il Metauro e il Candigliano Castel delle Ripe, indomabile, sbarrava la strada all’espansionismo urbinate. Un forte, malgrado il nome, facilmente espugnabile che, distrutto, fu ricostruito e, smantellato, ancora risorse, come l’Araba fenice, con il nome di Casteldurante. Il seme generoso della Langobardia, sopravvissuta sui monti, cadde nel grembo dell’antica abbazia di S. Cristoforo, voluta dalla politica di un re tauringio, pressoché pagano, e di una regina lithingia cattolica, per convertire un popolo che sacrificava a Godan. Così nacque Casteldurante, che soltanto secoli dopo, i duchi, riciclati al guelfismo, fecero loro.

L’autore